La cannabis, o canapa, legale (più comunemente detta cannabis light) è oggetto di disciplina normativa ad opera della Legge n. 242 del 02 dicembre 2016, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 304 del 30 dicembre 2016, in vigore dal 14 gennaio 2017, titolata “disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa” (CLICCA QUI per il testo integrale della Legge).

Con il termine “cannabis light” si intende quel tipo di canapa che presenta un principio attivo (THC) inferiore o uguale allo 0,6%, limite percentuale introdotto dall’art. 4 della L. 242/2016, al di sopra del quale la canapa è da intendersi illegale.

Il THC, ovverosia il delta-9-tetraidrocannabinolo è uno dei maggiori principi attivi della cannabis. Trattasi di una sostanza psicotropa prodotta dai fiori di cannabis con proprietà antidolorifiche, euforizzanti, antinausea, antiemetiche. Stimola altresì l’appetito ed abbassa sia la pressione endooculare che i livelli di aggressività del soggetto che la assume.

Come detto sopra, la cannabis, per essere considerata legale, deve contenere una percentuale di THC inferiore allo 0,6%: al di sotto di detta soglia, infatti, la canapa non produce alcun effetto psicotropo ma tutt’al più solo un tenue effetto sedativo (procurando lieve senso di relax).

Vediamo più nel dettaglio cosa prevede la Legge 242/2016.

In primis, la finalità dichiarata dalla Legge in commento è quella di sostenere e promuovere la coltivazione e la filiera della canapa del tipo Cannabis sativa L. (che, fra quelle esistenti, rientra nelle varietà a bassissimo contenuto di THC), “quale coltura in grado di  contribuire  alla  riduzione  dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo  dei  suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione” (art. 1, comma 1). In altri termini, la normativa intende promuovere ed incoraggiare forme alternative di sfruttamento agricolo, diversificando il mercato della produzione agroalimentare e favorendo la produzione locale a discapito dell’importazione di materie prime straniere (oggi si dipende principalmente dall’estero per i semi di canapa da utilizzare nei terreni; dalle uniche varietà italiane non si riescono a ricavare semi a sufficienza per soddisfare neppure un minimo della filiera esistente).

Il secondo comma dell’art. 1 della legge cit. consente la coltivazione delle sole varietà di canapa ammesse ed iscritte all’interno del Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, in conformità a quanto disposto all’art. 17 della Direttiva Europea 2002/53/CE (CLICCA QUI per il testo della Direttiva). Trattasi di varietà di canapa considerate al pari delle piante agricole e valutate in relazione all’effettivo sfruttamento nel campo dell’agricoltura e delle fonti sostenibili. La coltivazione di dette varietà è consentita senza necessità di alcuna autorizzazione.

La coltivazione delle varietà di canapa consentite deve essere finalizzata a precisi obiettivi, così individuati dal legislatore: 1. coltivazione e trasformazione; 2. incentivazione dell’impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali; 3. sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l’integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale; 4. produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori; 5. realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca.

Per quanto riguarda la produzione di alimenti da canapa, la legge prescrive che i limiti di THC siano fissati entro sei mesi dall’entrata in vigore della norma mediante direttiva da emanarsi ad opera del Ministero della Salute. Per il momento è stata presentata solo una bozza, già aspramente criticata dalle associazioni di categoria (fra cui Assocanapa) in particolare a causa di due fattori: per l’olio di canapa ottenuto tramite spremitura a freddo dei semi, i limiti di THC previsti dalla bozza sembrano essere eccessivamente bassi; inoltre, nella lista degli alimenti vengono compresi semi, farina ed olio, ma trascurate le infiorescenze. Oltre al fatto che la bozza di decreto è indirizzata solamente ai prodotti realizzati in Italia, escludendo quindi quelli di importazione che vengono in questo modo indirettamente favoriti. Prima di ogni ulteriore valutazione in merito, si dovrà attendere la versione definitiva del Ministero circa la percentuale di THC che può essere legittimamente contenuta nei cibi ad uso umano e nei prodotti cosmetici.

Nel sopracitato elenco non compare lo scopo ricreativo: in realtà la Legge non consente né vieta espressamente l’utilizzo personale della canapa legale, pur restando vietato da tutte le normative sanitarie attualmente vigenti nel nostro ordinamento. Pertanto, la cannabis light, ancorché legale ai sensi della l. 242/2016, non si potrebbe fumare.

La Legge (art. 2, comma 2) indica quali tipologie di prodotti è consentito realizzare attraverso la lavorazione della canapa, ovverosia: alimenti e cosmetici prodotti nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori; semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; materiale destinato alla pratica del sovescio (pratica agronomica consistente nell’interramento di apposite colture allo scopo di mantenere o aumentare la fertilità del terreno); materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; coltivazioni destinate al florovivaismo.

In relazione al riportato elenco di prodotti legalmente realizzabili attraverso la lavorazione della canapa, il problema che si pone riguarda la collocazione della cannabis legale all’interno di specifiche categorie merceologiche che possano formare oggetto di attività commerciale. Si deve ritenere che la messa in vendita di infiorescenze in sé, per essere considerata legale, debba essere fatta rientrare, a scelta, in qualcuna delle categorie indicate dalla norma, o, comunque, dovrebbe almeno recare la dicitura “prodotto tecnico” (di portata talmente generica da risultare difficilmente contestabile).

Il coltivatore ha 2 precisi obblighi: 1. conservazione dei cartellini della semente acquistata per un periodo non inferiore a dodici mesi; 2. conservazione delle relative fatture di acquisto, per il periodo previsto dalla normativa vigente (art. 3).

Il coltivatore deve rispettare anche precisi limiti in relazione al contenuto complessivo di THC della canapa prodotta, con il primo limite fissato allo 0,2% e, comunque, non superiore allo 0,6% per le rilevazioni effettuati su piante ancora presenti nei campi.

Il Corpo forestale dello Stato (l’attuale Comando unità per la tutela forestale, ambientale e agroalimentare dei Carabinieri) è l’organo autorizzato ad effettuare i controlli sulle coltivazioni attraverso prelevamenti per campione ed analisi di laboratorio, fatto comunque salvo ogni altro tipo di controllo da parte degli organi di polizia giudiziaria, eseguito su segnalazione e/o nel corso dello svolgimento di attività giudiziarie. Qualora gli addetti ai controlli reputino necessario effettuare i campionamenti con prelievo della coltura, sono tenuti ad eseguirli in presenza del coltivatore ed a rilasciare un campione prelevato in contraddittorio con l’agricoltore stesso, per permettergli eventuali controverifiche. Qualora, all’esito del controllo, il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2% ma entro il limite dello 0,6%, nessuna responsabilità può essere imputata all’agricoltore che si trovi in regola con tutte le prescrizioni di Legge. Gli esami per il controllo del contenuto di THC delle coltivazioni devono sempre riferirsi a medie tra campioni di piante, prelevati, conservati, preparati ed analizzati secondo il metodo prescritto dalla vigente normativa dell’Unione europea e nazionale di recepimento.  Il superamento della soglia dello 0,6% comporta, alternativamente, il sequestro della coltivazione o la sua distruzione.  Nell’ipotesi in cui l’agricoltore si trovasse a norma con tutte le prescrizioni di Legge per impiantare la coltura ed in possesso di tutta la necessaria documentazione (cartellini e fatture), ma, dalle verifiche di laboratorio, il contenuto di THC rilevato sui campioni di piante presenti nella coltivazione risultasse tuttavia superiore allo 0,6%, l’autorità giudiziaria potrebbe disporre il sequestro o la distruzione della canapa presente in loco, ma all’imprenditore agricolo non verrebbe contestata alcuna responsabilità (art. 4, comma 7).

È indiscutibile come la cannabis legale sia divenuta, nell’arco di brevissimo tempo, una vera e propria risorsa commerciale ed imprenditoriale, una fonte di business, inaugurata da una piccola azienda (la Easy Joint) che si dedicava alla vendita in rete di infiorescenze di canapa legale, poi divenuta una delle aziende leader nel settore, con numerose unità locali (più di 450 – i c.d. “store easyjoint”), ramificate su tutto il territorio italiano.

Si è assistito e si assiste tuttora ad una esponenziale crescita e proliferazione di negozi specializzati nella vendita al dettaglio della cannabis legale (i c.d. smartshop), di punti vendita di articoli da giardinaggio indirizzati alla coltivazione della pianta della canapa (i c.d. grow shop), per arrivare ai tabaccai, dove è possibile acquistare la cannabis legale. Alcune attività, per ora registrate solo sul territorio di Roma, forniscono anche servizi di consegna a domicilio.

Per potere procedere ad una corretta commercializzazione di prodotti derivati dalla coltivazione di Cannabis Sativa L., il coltivatore deve fornire precise garanzie, mediante, ad esempio, il rilascio di idonea certificazione, proveniente da un laboratorio di analisi, pubblico o privato, attestante la presenza, nella canapa ottenuta dalla propria coltivazione, di un valore di THC a norma (e quindi inferiore allo 0,6%).

Inoltre, il prodotto deve essere confezionato e sigillato e ciascuna busta dovrà essere corredata da un’etichetta recante l’area geografica o la nazione di provenienza, il lotto originario ed il livello di THC certificato.

Per le colture non si possono utilizzare sementi auto prodotte da quelle certificate e acquistate l’anno precedente, che hanno dato origine alle coltivazioni. È ammesso solo in un caso e per un solo anno, agli “enti di ricerca pubblici, le università, le agenzie regionali per lo sviluppo e l’innovazione, anche stipulando protocolli o convenzioni con le associazioni culturali e i consorzi dedicati specificamente alla canapicoltura” e, comunque, utilizzate solo per “piccole produzioni di carattere dimostrativo, sperimentale o culturale, previa comunicazione al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali” (art. 7).

Lo Stato, le regioni e le  province  autonome  di  Trento e di Bolzano, negli ambiti di rispettiva  competenza, possono promuovere azioni di formazione in favore di coloro che  operano  nella  filiera della canapa e diffondono, attraverso specifici canali informativi, la conoscenza delle proprietà della canapa e dei suoi utilizzi nel campo agronomico, agroindustriale, nutraceutico, della  bioedilizia, della biocomponentistica e del confezionamento (art. 8).

Articolo redatto a cura dell’Avv. Luca Rufino