L’obbligo di fedeltà è disciplinato normativamente dall’art. 2105 c.c., il quale prevede che “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.
In altre parole, dal testo della norma si evince che il dipendente deve attenersi ai seguenti precetti:
a) divieto di concorrenza;
b) obbligo di riservatezza.
La violazione di dette soprariportate regole di condotta importa responsabilità disciplinare (art 2106 c.c.), nonché l’obbligo al risarcimento dei danni subiti dal datore di lavoro.
Nel tempo ci si è interrogati se tali sopra-riportati limiti alla liberà del lavoratore esauriscano l’obbligo di fedeltà.
La Giurisprudenza ha ritenuto a tal proposito di poter individuare altre norme ( artt. 1175 e 1375 c.c., che come noto postulano i concetti – anch’essi peraltro generici – di buona fede e correttezza contrattuale) per integrare gli obblighi del lavoratore connessi alla fedeltà dovuta al proprio datore di lavoro in connessione con il suo ruolo di lavoratore subordinato inserito in una attività imprenditoriale.
Appare di primo acchito necessario, per poter correttamente verificare se il lavoratore abbia violato i principi di buona fede e correttezza e quindi l’obbligo di fedeltà così delineato dalla Giurisprudenza (invero purtroppo assai genericamente), individuare che cosa si deve intendere per buona fede contrattuale nel caso di specie.
La buona fede (in particolare nell’esecuzione del contratto) si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico.1
Quanto sopra ovviamente non può prescindere da un analisi empirica dell’effettiva conoscenza o meno da parte del soggetto degli elementi di fatto fondanti tale obbligo di solidarietà.
In altre parole dunque, il Giudice, al fine di correttamente apprezzare l’eventuale lesione di tale obbligo, dovrà scendere nella fattispecie concreta per verificare se, nello svolgersi concreto dei fatti, il soggetto ha compiuto tutti quegli atti giuridici e materiali che doveva e poteva compiere.2
Le sentenze sino ad ora emesse dall’Alto Consesso si pongono sul sentiero poc’anzi tracciato, tanto che, direttamente od indirettamente, in tutti gli arresti giurisprudenziali vi è sempre una valutazione tanto dell’oggettività dell’asserita violazione dell’obbligo di fedeltà che dell’elemento soggettivo, e cioè del comportamento messo in essere dal lavoratore.
Direttamente, perché in alcune sentenze gli Ermellini cassano in quanto non è stato esaminato dal Giudice l’elemento volitivo del soggetto agente, ovvero respinge il ricorso in cassazione (od il controricorso), motivando che i Giudici di grado inferiore hanno correttamente individuato la fattispecie anche sotto il punto di vista del comportamento del lavoratore in ogni suo aspetto.
Indirettamente, perché in altre pronunce (diversamente dal caso in oggi sottoposto al vaglio del Giudicante), l’elemento volitivo (e la conoscibilità della potenzialità lesiva) è ritenuto intrinseco nel porre in essere attività in diretta concorrenza col datore di lavoro (il lavoratore non poteva in altre parole non sapere cosa stava facendo).
Ed infatti, sulla scorta degli stessi arresti giurisprudenziali più recenti (cfr. fra le altre cass.19096/13, 14176/09, 6654/04), perché vi sia una sorta di “automaticità” (o quantomeno una sorta di “presunzione” di violazione del 2105 c.c.) l’attività deve essere posta in concorrenza con il proprio datore di lavoro.
In tutti gli altri casi, invece, a parere di chi scrive, è sempre necessario un esame dell’elemento volitivo.
Volendo infatti estendere la portata dell’art. 2105 c.c. anche a “qualsiasi atto contrario agli interessi del datore di lavoro, potenzialmente produttivo di danno” si deve tuttavia richiamare quanto detto in precedenza in merito alla conoscenza e consapevolezza da parte del soggetto agente di tutti gli elementi idonei per valutare ex ante la potenzialità lesiva della propria condotta.
Tale principio è ricavabile anche dalle giurisprudenza di Cassazione, oche ha statuito che: “anche la sola previsione della possibilità di effetti dannosi per gli interessi del datore di lavoro, ossia la consapevolezza della potenzialità lesiva della condotta posta in essere integra gli estremi dell’intenzionalità dell’infrazione” (cass. 19096/13).
In altre parole, dunque, l’infrazione commessa dal lavoratore deve essere qualificata da conoscenza, mediante ordinaria diligenza, della possibilità di creare un danno al proprio datore di lavoro.
Articolo redatto dall’Avv. Carlo Pasero
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